Letture;Howl (Urlo)

“Ho visto le migliori menti della mia generazione distrutte da pazzia, morir di fame isteriche nude strascicarsi per strade negre all’alba in cerca di una pera di furia”. Sono questi i versi che Allen Ginsberg “urlava” per la prima volta nel 1955 nella Six gallery di San Francisco; sono questi i versi quelli che aprono l’opera che sarebbe poi divenuta il poema cardine della cosiddetta Beat Generation: Howl, appunto.
Un testo che narra con stile inedito le molteplici esperienze dell’autore (l’omosessualità e l’amore nei confronti di Peter Orlovsky), i rapporti e le conversazioni con gli amici (tra cui diversi artisti, come Jack Kerouac, Gregory Corso e William Burroughs), il dissenso verso lo stato americano (denominato “Moloch”), lo sviluppo di un movimento di scrittori dissidenti che voleva cambiare il mondo. Proprio questa vivacità intellettuale, unita a un massiccio uso di droghe allucinogene come il peyote, genererà le rime che un paio d’anni più tardi saranno censurate e portate in un’aula di tribunale per oscenità nella persona dell’editore Lawrence Ferlinghetti. Il lavoro degli esperti documentaristi Rob Epstein e Jeffrey Friedman prende questa direzione, cercando di ricostruire il momento topico di fermento socio-culturale e riflettere sulla libertà di espressione e sul ruolo dell’artista nella società.
La narrazione avviene attraverso tre momenti distinti ma uniti dallo stesso filo della riabilitazione professionale del giovane Ginsberg (James Franco, perfettamente a suo agio, che offre un’interpretazione credibile): gli aneddoti di vita con le interviste rimaneggiate, il processo del 1957 e lo stesso poema fuso con l’animazione di alcuni graphic novelists . Ed è probabilmente questo dissolversi dei versi nei disegni uno degli aspetti più interessanti di Howl; una rielaborazione animata del quadro sovversivo di San Francisco, della visionarietà del poeta, e di tutto il contesto appartenente all’immaginario “beat”, come la ribellione o il ritmo del jazz stile bebop, che ritroviamo nella musicalità delle rime. Anche il processo – il cui dibattito è riportato fedelmente – si ritaglia uno spazio discreto e adeguato alla rappresentazione senza cadere nella retorica dello “show” e ci mostra le dissertazioni tra gli avvocati e i vari critici letterari chiamati in causa per esprimere il loro giudizio sull’opera controversa.
Quanto al suo contenuto, non meraviglia che nel clima maccartista dell’epoca ne sia stato messo in discussione il valore culturale in quanto il poema è effettivamente audace nella sua esposizione stilistica e utilizza un linguaggi sfrontato dove la componente sessuale appare predominante; oltre a questo aspetto di Howl colpisce la particolare energia, il fascino psichedelico e la grande acutezza di osservazione che conferiscono all’opera una modernità innata e longeva.
Peccato che la produzione successiva di Ginsberg, a parte l’altro bellissimo poema Holy (Santo), che fu poi brillantemente musicato da Patti Smith, non sia stata all’altezza di Howl. Comunque, grazie anche al clamore suscitato dal processo, questo libro di poesie divenne l’opera – simbolo della Beat generation insieme al romanzo On the road (1957) di Jack Kerouac. Nei decenni a venire, questa letteratura ribelle avrebbe dato nuova linfa ai tanti movimenti antagonisti d’Europa e d’America.
Il film, che si struttura su una lunga intervista a Ginsberg/Franco il cui interlocutore rimane perennemente fuori campo, approfondisce la riflessione su argomenti come il divieto di manifestare la propria identità e ragiona sulla sempre cangiante definizione di oscenità. A tratti si ha la sensazione di assistere a un freddo esercizio di stile a causa della scarsa interazione tra i personaggi, tuttavia Howl rimane una pellicola ricercata, un bel film letterario di cui sarebbe stato opportuno evitare il doppiaggio.
Fernanda Pivano fu in Italia l’ambasciatrice e la paladina del fenomeno beat, il quale influenzò anche la destra culturale dell’epoca. E non poteva essere altrimenti, dato che ai marxisti-leninisti di stretta osservanza, ai depositari della rivoluzione, ai custodi dell’ideologia ortodossa quegli “anarchi” irrazionali e individualisti sempre in cerca di una via personale alla spiritualità, non potevano che apparire come nemici di classe. Contestualmente, non piacevano all’establishment i maestri che si erano scelti: un maledetto come Céline, un irregolare come John Fante, per non dire del vecchio Ezra Pound – Kerouac farà dire a Japhy, uno dei protagonisti dei Vagabondi del Dharma: “Pound era un buon diavolo, anzi, il mio poeta preferito”. E nel 1967 Allen Ginsberg venne in Italia proprio per incontrare Pound che, uscito dal manicomio, viveva da qualche anno a Rapallo. E’ famosa la foto che ritrae il vecchio

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