IL PESO DEL GAMBERO

Squilla il telefono, mi chiama un’amica. Vuole segnalarmi l’uscita di un piccolo articolo sul Gambero Rosso che riguarda la sua nuova iniziativa. Ammetto di averlo comprato senza averlo però ancora sfogliato. Le prometto che lo farò subito. Chiudo la telefonata, devo andare in bagno: mi sembra l’occasione giusta. Prendo il tomo e con sgomento mi rendo conto che non sono in grado di tenerlo tra le mani… pesa troppo!

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La crisi dell’individualismo occidentale e l’immagine dello spirito del tempo

di Costanzo Preve – Luigi Tedeschi –





Intervista con il Prof. Costanzo Preve a cura di Luigi Tedeschi

1. L’Occidente si dibatte in una crisi in cui, nonostante le periodiche fluttuazioni al ribasso dei mercati finanziari e  i dati negativi sempre più allarmanti dell’economia reale in tema di produzione e occupazione, continua a confidare nella sussistenza e nella ripresa del sistema economico liberista, sia nelle sue più diversificate interpretazioni. Anche se ovunque si è reso necessario l’intervento degli stati nell’economia, allo scopo di scongiurare fallimenti di banche e grandi imprese, agli stati è attribuito il solo ruolo di debitore in ultima istanza, senza che essi possano efficacemente assumere le funzioni di controllo ed intervento, di programmazione economica e di redistribuzione sociale della ricchezza. proprio perché lo stato vive relegato alla funzione di mero supporto all’economia di mercato, le strategie anticrisi si rivelano inefficaci. Si vuole in sostanza utilizzare la mano pubblica al fine di ripristinare quell’ordine economico basato sul libero mercato globale, responsabile della crisi mondiale, in quanto creatore di liquidità illimitata virtuale, debito ed insolvenza generalizzata, economia produttiva subordinata agli squilibri dei mercati finanziari. la contraddizione della crisi dell’economia liberista, consiste dunque nel riproporre in tal modo la restaurazione impossibile di un sistema senza regole né limiti, che non tollera controlli esterni, ma che, proprio perché sprovvisto di meccanismi di equilibrio interni, deve essere supportato dagli stati, la cui azione in economia viene percepita dagli investitori con diffidenza e sfiducia, quale indebita interferenza. il modello liberista globale si dibatte in una crisi insanabile, perché fondato sul debito, sulla precarietà e su consumi illimitati, quando, invece, un’economia in recessione richiede stabilità, programmazione, investimenti pubblici a lungo periodo. il liberismo si è rivelato incapace affrontare i mali del nostro tempo da esso stesso generati. le soluzioni sono note a tutti e le strategie anticrisi non possono essere che di carattere politico – istituzionale. Forse la parabola liberista contemporanea finirà perché non riuscirà a portare a compimento la propria restaurazione ottocentesca e progressista.

Ammetto apertamente di non avere le idee molto chiare sulla natura storica profonda di questa crisi del capitalismo. Che essa ci sia, e sia grave, ed abbia già fatto cadere le oscene apologie del mercato liberista, è chiaro a tutti, e non c’è bisogno che sprechi carta per ripetere argomenti critici già largamente noti. Da quanto mi sembra di capire, questa crisi è grande abbastanza per far male a milioni di persone, ma è ancora troppo piccola e “controllabile” dalle cupole oligarchico-finanziarie per comportare una vera sconfitta strategica dell’attuale “capitalismo assoluto” (l’espressione, a mio avviso corretta, è di M. Badiale – M. Bontempelli, La Sinistra Rivelata, Massari, Bolsena 2007). In ogni caso, mancano le forze soggettive, politiche e culturali, per aprire un nuovo ciclo storico. Lasciamo il “pensare positivo” a Jovanotti e Berlusconi.
Sempre secondo Badiale e Bontempelli (op. cit., pp 243-250), la svolta che ha portato al ciclo neoliberista assoluto non ha atteso la caduta ingloriosa e grottesca del comunismo storico novecentesco veramente esistito (1989 – 1991), ma è iniziata sotto Jimmy Carter nel 1979 con la stretta monetaria di Paul Volcker. Secondo il noto commentatore Paul Krugman, la grande recessione economica occidentale del 1980 – 82 non è stata l’involontaria e spiacevole conseguenza della lotta all’inflazione, ma è stata una recessione intenzionalmente provocata come tale, e la manovra monetaria del 1979 è stata voluta, prima ancora che per combattere l’inflazione, perché si producesse disoccupazione attraverso la recessione.


Non sono sicuro che sia andata così. Da qualche parte ho letto che il giro di boa verso il basso del potere d’acquisto del salario reale dell’operaio specializzato americano è stato il 1973, non il 1979. In ogni caso, se questo è vero, siamo di fronte da almeno quaranta anni ad un nuovo ciclo dell’accumulazione capitalistica “mondiale”, che fa diventare i cosiddetti trenta anni gloriosi “1945 – 1975” non certo uno stadio dell’evoluzione pacifica progressiva dal capitalismo al socialismo (come ha pontificato per decenni il gruppo subalterno ed ignorante dei cosiddetti “economisti di sinistra”), ma un normale momento ciclico della ricostruzione dopo la grande crisi del 1929 e le distruzioni della seconda guerra mondiale (1939 – 1945), che ricordo non è mai esistita come guerra unitaria ma ne ha sempre contenuto tre distinte (cfr. C. Preve, La quarta guerra mondiale, Il Veltro, Parma 2008).
Questo ciclo economico neoliberista, il primo vero e proprio ciclo del capitalismo assoluto, postborghese e postproletario, il primo ciclo interamente postfascista e postcomunista, non ha ancora trovato a mio avviso uno storico che lo abbia saputo inquadrare con categorie di lungo periodo. La casta degli economisti non va al di là delle simulazioni econometriche, e la casta dei contemporaneisti è troppo occupata a rinfocolare l’antifascismo in assenza completa di fascismo. Dal momento che, per manifesta incompetenza specialistica, non posso certamente farlo io, mi limiterò a segnalare due fattori materiali probabili.
In primo luogo, non ho ovviamente mai creduto, neppure per un momento, che esistesse una cosa chiamata “globalizzazione”, ed ho sempre pensato che si trattasse di un ordine (globalizzatevi, o la pagherete cara!) nascosto sotto una presunta descrizione (la globalizzazione è un fatto, e chi la nega è matto!), per cui bisognava semmai scoprire dove stavano le “cupole criminali” che mandavano questo messaggio. In termini paleomarxisti, erano sicuramente frazioni del capitale finanziario in lotta contro le tradizionali frazioni del capitale produttivo industriale, maggiormente legate alla sovranità monetaria dei vecchi stati nazionali e quindi maggiormente interessate a salvaguardare keynesianamente il potere d’acquisto delle classi salariate. Non sono però sicuro che questa interpretazione sia corretta. Certo, l’allargamento del mercato mondiale e la formazione di nuove classi medie nel Fu-Terzo-Mondo ha giocato un suo ruolo. Sul piano ideologico (David Harvey), questo ha comportato uno spostamento dell’ideologia dominante dal tempo illuministico del progresso allo spazio postmoderno della globalizzazione (viaggi facili ed a buon prezzo, inglese turistico come nuova koinè mondiale, invasività televisiva, guerra di civiltà fra spazi geografici, NATO come mercenariato mondiale senza confini, eccetera).
In secondo luogo, l’ultimo ventennio neoliberista (1989 – 2009) è stato anche una sorta di grande ed oscena orgia bacchica di festeggiamento per la caduta del baraccone tarlato del comunismo storico novecentesco, che d’accordo con Jameson definirei un grande esperimento di ingegneria sociale dispotico-egualitaria sotto cupola geodesica protetta, cupola geodesica generalmente definita “totalitarismo” nel pensiero politico occidentale apologetico del capitalismo. Questa orgia bacchica è durata vent’anni, ed il 2008 può esserne definito come il risveglio del giorno dopo, con il mal di testa e la bocca impastata dell’alcoolista. In termini letterari, il Capitalismo Assoluto Neoliberale può essere definito in termini di Grande Alcoolista Anonimo.
Per criticare il delirio neoliberale non c’è neppure bisogno di essere marxisti, anzi è meglio non esserlo, date le tendenze riduzionistiche ed economistiche del marxismo tradizionale, positivista in filosofia e ricardiano in economia. Prendiamo Benedetto Croce (cfr. Etica e Politica, Laterza, Bari 1921, ristampato 1981, pp. 263-7). Croce critica il liberismo economico, “cui è stato conferito il valore di legge sociale, convertendolo in illegittima teoria etica, in una morale edonistica ed utilitaria, la quale assume a criterio di bene la massima soddisfazione dei desideri in quanto tali, che è poi di necessità, sotto questa espressione di apparenza quantitativa, la soddisfazione del libido individuale o di quello della società intesa in quanto accolta e media di individui”. Da cui – continua Croce – “l’utilitarismo si sforzò d’idealizzarsi in una generale armonia cosmica, quale legge della Natura e della divina Provvidenza”. Infine – conclude Croce – “nell’indebito innalzamento del principio economico liberistico a legge sociale è la ragione onde è parso che quel principio stesso dovesse essere negato”.
Bravo, don Benedetto! Non si poteva dire meglio, in un buon italiano aulico, anche se un po’ vecchiotto! Ed infatti è veramente così. Nei termini dello studioso francese Pierre Rosanvallon, si tratta di un “capitalismo utopico”, e cioè di un capitalismo che non è mai esistito e che non può esistere se non nel mondo leibniziano delle (inesistenti) “armonie prestabilite”, utopico almeno quanto è utopica l’utopia marxiana capovolta e simmetrica, quella dell’estinzione dello stato nel comunismo. A differenza di come ha sostenuto il pur benemerito Karl Polanyi, anche il capitalismo, giunto allo stato di eccezione (Schmitt), è un’economia in qualche modo incorporata (embedded) nel sistema politico, tanto è vero che le oligarchie oggi in crisi ricorrono allo stato e ai poteri pubblici per poter “raddrizzare” quanto hanno distorto nel ventennio precedente.
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