100 miliardi di euro alla Fiat

 

 

Da Andreotti a Prodi, da D’Alema a De Mita: decenni di favori al gruppo sotto forma di incentivi e protezioni. Nel periodo ’70-’90 i finanziamenti più consistenti a favore del gruppo torinese.

Genericamente si potrebbe dire che furono tutti i big della politica della prima Repubblica a prestare un’attenzione particolare al gruppo Agnelli. Nella forma di aiuti, sostegni, spintarelle, scambio di favori, piaceri, paletti protezionistici. Il caso più clamoroso fu la protezione data da Romano Prodi in occasione dell’asta sull’Alfa Romeo. Ma ci furono interventi apparentemente marginali, però dalle conseguenze favolose per la Fiat. Basti pensare a quella nuova tassa che si inventò il governo Andreotti nel 1976, chiamata superbollo per i motori Diesel. Sotto al vestito una grande mano ai motori torinesi che all’epoca erano praticamente solo a benzina e di cilindrate basse.

E la fuoriuscita dei motori stranieri a gasolio, all’epoca più avanzati. E poi la famigerata Cassa del Mezzogiorno, feudo democristiano, che con la scusa dell’industrializzazione gettò miliardi anche nelle fabbriche del gruppo (ma non solo ovviamente). Andiamo per ordine. Le ultime dichiarazioni di Sergio Marchionne («dall’Italia non arriva alla Fiat un euro di utile») hanno riportato alla ribalta il tormentone dei tanti sussidi, diretti e indiretti, di cui il gruppo che fa capo alla famiglia Agnelli ha beneficiato nella sua lunga storia. «Per elencare tutti i favori – dice maliziosamente un esperto del settore – ci vorrebbe un’enciclopedia». Sul banco degli «imputati» sono soprattutto i governi di centrosinistra e gli uomini che li hanno condotti: Romano Prodi, Massimo D’Alema e Giuliano Amato firmano i provvedimenti che danno maggiore ossigeno all’azienda torinese.

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Johanna Heusser Spyri

Correva l’anno 1880, quando Johanna Heusser Spyri (1827-1901) scrittrice cinquantenne di fine secolo della Svizzera tedesca sensibile alle condizioni dei miseri – donne e giovanissimi – pubblicava un libro ancora molto popolare ai giorni nostri. Una storiella dalla quale verranno ricavati parecchi film (anche per la tivù) e un cartone animato fra i più famosi della storia dell’animazione internazionale. Il libro era Heidi’s Lehr und Wanderjahre (Gli anni di formazione e di peregrinazione di Heidi), seguito l’anno dopo da Heidi kann brauchen was es gelernt hat (Heidi può servirsi di ciò che ha imparato).
Com’è facile intuire si trattava delle vicende di Heidi, la bambina che viveva col nonno fra i monti della Svizzera. Già interpretate da Shirley Temple negli anni Trenta, divenute un cartone animato giapponese (anime) coprodotto dai tedeschi nel 1974, e trasmesse dalla nostra Rai per la prima volta all’inizio del 1978, in anticipo di due mesi sul mitico Goldrake e in cinquantadue lunghe puntate. Da quegli anni riproposte praticamente senza sosta fino alla trascorsa estate. Dell’anime oramai entrato a pieno diritto anche nella nostra storia fu regista Isao Takahata con la composizione degli ambienti di Hayao Miyazaki, premio Oscar nel 2003 e premio alla carriera, a Venezia, nel 2005. In molti infine avrebbero aggiunto ai romanzi e alle pellicole sulla piccola Heidi numerosi “seguiti” e avrebbero spinto le narrazioni fino alla grande guerra e ai discendenti della più celebre pastorella dei cartoni. Una storia praticamente “infinita”.
A casa nostra la serie “Heidi” fu un vero spartiacque dell’animazione, contribuì a “svecchiare” il repertorio, aprendo le porte alla lunghissima e ininterrotta stagione dei cartoni giapponesi, ed è rimasta celebre per un paio di tocchi di onesta italianità: per la sigla d’apertura cantata – nella nostra lingua – da Elisabetta Viviani («Heidi, il tuo nido è sui monti / Heidi, eri triste laggiù in città», eccetera), un successo anche questo senza tempo, e per la voce della doppiatrice della protagonista, appartenente a Francesca Guadagno, a quel tempo già nota per aver interpretato “Piange il telefono” – canzone e film – col grande Domenico Modugno.
La storia originale di Heidi è quella di una bambina e di una famiglia, anzi di più famiglie coeve agli anni della Spyri, non proprio felici (e tipicamente ottocentesche). Dete, zia di Heidi cinque anni appena e rimasta presto orfana, non può prendersi cura della bambina – figlia della sorella Adelaide – e decide di affidarla al nonno, cioè al papà del papà di Heidi (il “vecchio dell’Alpe”, considerato scontroso e inaffidabile), che vive in una baita isolata vicino ai monti della Svizzera. In luoghi dispersi, a dispetto delle previsioni, la bambina è vivace, cresce bene, da “buon selvaggio”, impara l’arte della piccola pastorella, è libera, si adegua senza drammi ai cicli della natura e impara ad apprezzarne la bellezza e a temerne la violenza. Ma anche il “vecchio dell’Alpe” è felice, è riuscito a trovare dentro di sé le giuste dosi di delicatezza e severità e in tarda età si è reinventato educatore… Insomma se non è un miracolo della natura, poco ci manca. Si parte male, ma tutto sembra andare per il meglio.
Nessuno però ha fatto i conti con la (cattiva) zia Dete, cameriera a Francoforte, che, trascorsi due anni, risale le montagne e va a riprendersi la bambina fra la disperazione di quanti hanno cominciato a volerle bene (il nonno prima di tutto, l’amico del cuore il pastorello Peter e la sua famigliola: mamma e nonna cieca). La novità è che adesso a Francoforte c’è un signore benestante, tale Seseman, che desidera che la pastorella diventi compagna di studi della figlia dodicenne. Seseman è il capo di una famiglia formata da se stesso (anche se, non di rado, assente) e da Klara una bambina triste che vive su una sedia a rotelle perché malata di poliomielite (la mamma è morta). È la zia Dete ad aver deciso per tutti e Heidi si vede dunque costretta a trasferirsi in città.

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