Giulietto Chiesa, estratti dal capitolo “La convergenza dei punti critici”, del libro “Invece della catastrofe”

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La tradizione comunista e socialista, dopo la disfatta dell’esperimento sovietico, non è stata capace di produrre nulla di alternativo in grado di contrastare il pensiero unico, che infatti ha vinto. Gli epigoni di quell’esperienza sono ormai – come scriveva acutamente Alexadr Herzen, pur riferendosi alla generazione del 1848 – «stranieri del tempo loro» e non capiscono di essersi lasciati «sfuggire il presente e il futuro», mentre continuano a «lottare contro il loro stesso passato». Non è questione di “tradimenti”; questi ci sono stati, ma sono stati piuttosto l’effetto che la causa. Il fatto è c’era un buco nella teoria, anzi una voragine. Marx non poteva averla vista, perché quella voragine si aprì dopo di lui, sebbene qualche importante intuizione lui e Friedrich Engels la ebbero. I loro epigoni, invece, ci cascarono dentro.

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Per il bene comune

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Per evitare che tutto finisca in un calderone indefinito, dobbiamo distinguere e dare priorità alle risorse naturali, decisive per la sopravvivenza dell’umanità. Solo dopo vengono conoscenza e cultura, servizi e internet. Le comunità e i movimenti ambientalisti devono diventare una voce che decide insieme alle altre istituzioni del territorioI beni comuni naturali, legati ai quattro elementi di Empedocle -acqua, aria, terra e fuoco- possono esprimere, riletti alla luce del presente, un modello sociale e produttivo alternativo, ma non sostitutivo, a quello capitalistico. Hanno questa valenza perché mettono in discussione il capitalismo da tre angolature essenziali: l’economia di mercato e quindi la mercificazione delle cose e delle persone; la proprietà privata e quindi lo sfruttamento del lavoro e della natura; la democrazia rappresentativa, che nella globalizzazione neoliberista non garantisce la partecipazione e il controllo dei cittadini, neanche in misura limitata.

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“Sovrano è chi decide lo stato di eccezione”

“Sovrano è chi decide lo stato di eccezione”, scrive Carl Schmitt.Applicando tale enunciato all’isolato caso islandese emerge che il governo di Reykjavik è titolare di reale sovranità, specialmente in relazione alla ricetta adottata per superare il totale dissesto finanziario che aveva provocato il fallimento nazionale del 2008.Durante i periodi di crisi “la normatività – afferma Schmitt – è impotente” e dal momento che nel caso specifico tale “normatività” è eminentemente rappresentata dal Fondo Monetario Internazionale essa è stata sospesa dal governo islandese, che ha abbandonato la tutela dei creditori esteri – inesaustamente raccomandata dal Fondo – per il bene della comunità islandese.

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Tagliare 4400 miliardi di debito pubblico in dieci anni, riusciranno i nostri “eroi”?

America sull’orlo del baratro fiscale. Nell’ immediato rischia una paralisi del governo: il blocco a tempo indeterminato delle sue attività non essenziali (biblioteche e parchi chiusi, bloccata l’emissione di passaporti e molti atti amministrativi, Nasa e altre agenzie federali ferme, niente stipendio per gran parte dei dipendenti pubblici compresi i militari non combattenti) scatterà dopodomani sera se non si troverà «in extremis» un compromesso sul finanziamento del deficit di quest’anno. Ieri il direttore del bilancio della Casa Bianca ha ordinato ai capi di tutte le amministrazioni di preparare piani d’emergenza definendo caso per caso chi continuerà a lavorare anche in caso di «shutdown» perché svolge mansioni vitali e chi da lunedì dovrà restare a casa. Alzando lo sguardo sul medio-lungo periodo, poi, da ieri il Paese ha davanti agli occhi il primo piano concreto – quello dei repubblicani – di rientro del debito federale dagli attuali rischiosissimi livelli. Un piano che non solo annulla la riforma sanitaria di Obama ma prevede anche il pratico smantellamento del sistema di «welfare» americano che è già assai più leggero di quelli europei: niente più sanità garantita per anziani e poveri e ridimensionamento della Social Security, la previdenza pubblica.

 

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Lavatrici e telefonini

Nel 1965 – appena quarantacinque anni fa, quando è nata la generazione che adesso dovrebbe essere tra le colonne portanti della società – meno di una famiglia su quattro aveva in casa la lavatrice. La metà invece aveva già in casa la televisione.

E’ un dato che colpisce, nella miriade di numeri sapientemente illustrati in una particolare storia economica della società italiana: quella de “Le famiglie italiane”, scritta dagli economisti della   Luigi Cannari e Giovanni D’Alessio, per la collana del Mulino dedicata alla divulgazione di base delle scienze sociali, e intitolata appunto “Farsi un’idea”.

Ecco, per farsi un’idea di come sono andate le cose per la generazione di donne e uomini che adesso è in pensione, ricordiamoci questi numeri: dal ’55 al ’65 la percentuale di famiglie – ma diciamo pure: di donne – in possesso di lavatrice è salita dal 2 al 23%. Tanto. Ma ancora pochissimo, rispetto ai bisogni.

Quel dato dice che tre donne su quattro dovevano lavare a mano lenzuola, vestiti e biancheria pur essendo disponibile e accessibile una fantastica tecnologia che poteva evitare quella fatica. Una tecnologia lenta a trasformarsi in benessere collettivo. Più veloce era stata la diffusione di tv e frigorifero, il cui possesso balzò negli stessi anni dal 10 al 50% delle famiglie. Ci si chiede perché, mentre si immaginano soddisfatti capifamiglia – breadwinner, dicono gli economisti – sedersi davanti alla tv in bianco e nero comprata a rate mentre qualcuna lava le camicie.

Poi si va alla pagina successiva, e si vede un’altra evoluzione non neutrale della tecnologia, più recente: il possesso di cellulari, balzato dal 21 al 73% tra il ’97 e il 2004 (ma adesso staremo molto più su); e quello dei computer, per il quale l’ultimo dato è più recente, e parla di una diffusione al 46,1% delle famiglie nel 2006; in tre casi su quattro, si precisa, al possesso dei computer si associa una connessione internet. Che di certo conta – o potrebbe contare, dipende dagli usi – almeno tanto quanto la lavatrice, nella diffusione del benessere collettivo.

Il libro di Cannari e D’Alessio non è incentrato su lavatrici e telefonini; ma lo spiccare di alcuni dati di questo tipo fa capire come la lettura ponderata dei numeri possa emancipare l’economia da quella “dittatura del Pil” che adesso è da tutte le parti sotto accusa e processo.

Anche da parte degli stessi autori del libro, economisti di rito ortodosso – non certo dei pericolosi picconatori della “scienza triste” – che però assumono e spiegano in parole semplici tutte le novità che sono intervenute, con particolare visibilità negli ultimi anni, nella misurazione di “ricchezza, povertà e felicità”. Il libro si apre proprio con un capitolo, “misurare il benessere”, che di questo dibattito riporta il succo e il senso; e poi ne sviluppa le premesse, evitando di fare una storia dei bilanci delle famiglie italiane tutta centrata su una limitata misurazione di Pil, consumi e redditi.

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Tra liberismo e welfare il terzo (comunitario) goda

I tagli decisi dal governo sono davvero ragionevoli e misurati, come sostiene Berlusconi vantando l’avallo espresso per la Ue da Barroso, o sono iniqui come sostiene l’ectoplasma che forma l’opposizione?
In questa forbice tra opposte demagogie si consumerà il dibattito che, tanto per cambiare, non volerà alto.

Liberismo e welfare

Noi non siamo la Grecia e probabilmente non ci troveremo in un prossimo futuro nelle condizioni elleniche e neppure in quelle che si paventano per la Spagna. Ergo i tagli per le nostre tasche dovrebbero risultare sensibilmente meno laceranti. Ma non di meno si faranno sentire.
La logica dei tagli è palesemente liberista. C’è da stabilire quanto la scelta fatta in questi giorni possa, ovviamente in un’ottica liberista, perlomeno incidere in positivo come incentivi di produzione; e qualcosa in tal senso la si può pallidamente intravedere nei premi di salario legati agli utili, una misura che il ddl prevede.
La logica, comunque, qui come in ogni altro paese, penalizza quello che impropriamente chiamiamo Stato sociale e che più giustamente, con un pessimo neologismo straniero, abbiamo ribattezzato welfare, benessere. Di chi sia davvero il benessere è un altro conto.Dopo la mannaia

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