Siria,c’è una cospirazione”. Resta solo da capire chi, tra i tanti, sta soffiando sul fuoco

Il Washington Post ha pubblicato  (18 aprile) una notizia tratta dagli ormai celeberrimi cablogrammi di Wikileaks e rimasta finora inedita. Nel 2006 il Dipartimento di Stato statunitense stanziò un finanziamento di 6 milioni di dollari a favore di un gruppo dell’opposizione siriana in esilio, facente base a Londra, il Movimento per la Giustizia e lo Sviluppo, che gestisce anche una rete satellitare, Barada Tv. Il canale televisivo ha cominciato le sue trasmissioni nel 2009, ma, in seguito ai disordini avvenuti in Siria nelle ultime settimane ha intensificato la programmazione. Secondo il quotidiano americano, i rapporti finanziari coi dissidenti siriani, cominciati dall’Amministrazione Bush, sarebbero proseguiti anche con Barack Obama alla Casa Bianca, almeno fino al settembre 2010.

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IL BUSINESS NASCOSTO SOTTO LA MACCHIA DI PETROLIO DI BP

DI MAURO BOTTARELLI
ilsussidiario.net

Nella rubrica di oggi potevo parlarvi di Borsa, volatilità, crisi del debito, collocazione di bonds governativi e quant’altro: lo abbiamo fatto fino a oggi, riprenderemo a farlo dalla settimana prossima.

Quest’oggi parliamo della marea nera scatenata dal guasto all’impianto di British Petroleum nel Golfo del Messico, una tragedia ambientale che da settimane riempie pagine di giornali e le headlines dei principali tg. Per una volta non sembrano esserci dubbi nell’identificazione di buoni e cattivi: i primi sono i dirigenti della Bp, il secondo è Barack Obama che, dopo aver promesso di prendere a calci nel sedere i responsabili e passato ore a parlare con i pescatori della Louisiana, ieri ha mostrato una faccia ancor più dura.

I vertici dell’azienda petrolifera britannici, infatti, sono stati accolti con freddezza glaciale alla Casa Bianca e nonostante abbiano dato l’ok all’esborso di 20 miliardi di dollari per ripagare i danni causati, si sono sentiti rispondere dal numero uno della Casa Bianca che quella cifra «non rappresenta il tetto massimo». Ovvero, preparatevi a scucire molto altro denaro, ormai siete sotto scacco non mio ma dell’intero pianeta che vi odia a morte.

Sembra il film “Wag the dog”, una creazione mediatica straordinaria. Sono bastate, infatti, le immagini di quattro pennuti con le ali impiastrate di greggio e tre interviste ad altrettanti esperti pronti a proclamare la morte dell’oceano, per chiudere completamente gli occhi del mondo al molto altro che sta dietro alla vicenda che vede prootagonista la piattaforma Deepwater Horizon.

Lasciate stare che il paladino del mondo, ovvero Barack Obama, non più tardi di quattro mesi fa aveva autorizzato trivellazioni offshore anche nel “giardino delle rose” della Casa Bianca per non dipendere più dalla bizze ricattatorie dell’Opec e della speculazione otc sui futures, salvo ora trasformarsi nel Fulco Pratesi di turno, il problema è altro: che quell’incidente sarebbe accaduto lo si sapeva da mesi e mesi, era questione di tempo. Anzi, di timing visto che le implicazioni sono anche – e forse soprattutto – economche e finanziarie: prima delle quali, uccidere Bp, renderla scalabile e ottenere a prezzo di saldo le sue attività estrattive.

Cominciamo dal principio. La Deepwater Horizon, carta canta nei documenti ufficiali, è stata classificata fin dall’inizio della sua attività un progetto potenzialmente soggetto ai cosiddetto “low probability, high impact event”, classificazione che vede tra gli altri incidenti occorsi l’11 settembre, l’esplosione dello Shuttle e l’uragano Katrina: come per questi casi, l’ipotesi di “worst case scenario” è stata completamente ignorata. Con dolo o meno, lo scopriremo dopo.

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Wikileaks e le stragi ingestibili

Sul’onda delle rivelazioni clamorose di Wikileaks di questi giorni, riproponiamo un articolo pubblicato lo scorso 7 aprile dopo un altro massiccio “sgocciolamento” di notizie “scomode”. Il pezzo cercava di ricordare perché le rivelazioni vanno inquadrate all’interno di determinate congiunture storiche che le rendono possibili. Il fatto che nel frattempo il «Washington Post» si sia anch’esso svegliato dal trentennale torpore è una conferma: sulle questioni militari, ai piani alti del mondo, c’è maretta.

La strage indiscriminata compiuta dal cielo sopra Baghdad non sembra perdersi nel grande e indistinto bagno di sangue mesopotamico. Stavolta si nota subito che quel che vediamo è insolito. Incontriamo da vicino il punto di vista sbrigativo e crudele degli occupanti statunitensi, sentiamo le loro parole irridenti mentre demoliscono ogni ipocrisia sulle “regole d’ingaggio”. Merito di Wikileaks, un sito che fa trapelare molte verità scomode, con una cadenza ormai così fitta da spingere il Pentagono a brigare per chiuderlo: il web è un fronte primario della lotta fra guerra e verità.

E mentre il giornalismo alla «Washington Post» vive ancora della rendita d’immagine del Watergate, uno scoop di oltre trent’anni fa, Wikileaks in tre anni di vita ha inanellato una serie impressionante di rivelazioni. In genere si tratta di dossier confidenziali ben documentati e sottoposti a preliminare verifica da parte di centinaia di collaboratori. Fra gli scoop: il ruolo della banca svizzera Julius Baer nel riciclaggio internazionale, il manuale delle procedure a Guantanamo, i negoziati segreti sul trattato dei diritti d’autore, i dettagli su Scientology, i retroscena del crac finanziario islandese, ecc. E ora lo “snuff movie” dell’invasione irachena.

Le fonti delle notizie trapelate sono i cosiddetti «whistleblowers». La parola non ne ha una che combaci nella nostra lingua. Letteralmente sarebbero coloro che fischiano e lanciano un allarme per via di una condotta illegale o minacciosa di un’organizzazione di cui fanno parte. Si tratta di funzionari, avvocati, impiegati, o anche semplici cittadini che si trovano fra le mani informazioni sensibili e decidono di farle conoscere. Nel farlo rivestono un ruolo misto fra “confidenti”, “obiettori di coscienza” e “attivisti politici”, mentre Wikileaks assicura loro un totale anonimato attraverso un sistema di codificazione dei dati. Una comunità di circa 800 giornalisti, informatici, matematici e attivisti cerca i riscontri alle informazioni e infine le pubblica sul sito.

Ovviamente siamo abbastanza grandicelli per comprendere come un tale sistema possa servire a certe cordate dei servizi segreti in lotta fra loro per guidare i meccanismi dell’informazione, con rivelazioni strategiche.

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Iran: un finale già scritto?

Mentre le immagini di esercitazioni missilistiche in Iran, anche quando si tratta di test dell’industria aero-spaziale nazionale, riempiono gli schermi dei notiziari occidentali, ingenerando l’impressione di una incombente e oscura minaccia, ben poca eco ha invece avuto il dispiegamento voluto da Obama delle batterie di missili patriots nei paesi arabi del Golfo persico.

Kuwait, Bahrein, Qatar, Emirati Arabi. Ognuno di questi paesi, secondo il generale Petraeus, riceverà due batterie di sistemi di missili anti-missile difensivi denominati patriots, mentre negoziati sono in corso con l’Oman. Il termine “difensivo” non deve trarre in inganno. Il sistema è concepito per rispondere ad eventuali rappresaglie iraniane in seguito ad un attacco che coinvolga la penisola arabica come corridoio aereo. In questo modo Washington intende ottenere una serie di risultati: accrescere la pressione su Teheran; rassicurare i paesi arabi vicini senza l’intervento sul posto di truppe che potrebbero contrariare le opinioni pubbliche di quei paesi; calmare e dissuadere Israele da un attacco preventivo.

I paesi arabi del Golfo sono sempre più inquieti a fronte della tensione internazionale che cresce fra Iran e Occidente e per quella che viene avvertita come una intensificazione del paese persiano quale potenza regionale, con effetti destabilizzanti verso le proprie minoranze sciite interne.

Da più parti, ormai, ed in maniera sempre più esplicita, si ammette che la crisi sul nucleare possa sfociare in un aperto conflitto. Secondo il Washington Post il coordinamento militare tra gli Usa e questi paesi si sta rafforzando sempre più strettamente negli ultimi anni. Con l’aiuto americano l’Arabia Saudita sta allestendo una armata che conta circa 30mila uomini. Gli Emirati Arabi Uniti, principale cliente bellico degli Usa, hanno speso nell’ ultimo biennio 17 miliardi di dollari per sistemi di difesa elettronici ed aerei da combattimento (tra cui 80 F-16).

L’Iran ha dunque comunicato alla AIEA l’intenzione di procedere unilateralmente all’arricchimento del suo uranio dal 3,5% al 20% per usi civili (nella fattispecie per il settore medico radiologico). La notizia è giunta dopo giorni di passione.

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