Più della metà dei corpi idrici superficiali in Europa ha uno status ecologico a rischio

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Quadro preoccupante dall’ultimo rapporto dell’Agenzia europea dell’Ambiente sulla salute di laghi, fiumi e torrenti dell’Unione: inquinamento, sprechi e modifiche artificiali dei corpi idrici, tra le principali cause del cattivo status delle acque, in un’Europa sempre più alle prese con siccità e alluvioni.

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Vietato fumare

Nel komeinismo salutista che ha preso di mira il fumo e i fumatori c’è qualcosa di grottesco. È come se uno, bruciandogli la casa, si occupasse del canile. Noi usciamo in strada e inaliamo inquinamento a palate: fumi indu- striali, scarichi dei tubi di scappamento, polveri sottili, piogge acide. Ma nemmeno in casa i nostri polmoni sono al sicuro.

Ma il problema è il fumo.

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Global Forecast for the Next Forty Years

A Rotterdam, in occasione dell’apertura dell’Annual Conference 2012 del WWF intitolata “The Economy of the Future”, tenutasi in questi giorni, Jorgen Randers, uno degli autori della straordinaria serie dedicata ai “Limits to Growth” (il cui primo rapporto pubblicato nel 1972 e voluto dalla geniale intuizione di Aurelio Peccei per il Club di Roma, scatenò il grande dibattito planetario sui limiti della nostra crescita materiale e quantitativa in un mondo dai limiti biofisici evidenti), ha presentato il nuovo rapporto al Club di Roma, “2052: A Global Forecast for the Next Forty Years” (pubblicato da Chelsea Green e che uscirà in italiano in autunno da me curato per Edizioni Ambiente).

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IL BUSINESS NASCOSTO SOTTO LA MACCHIA DI PETROLIO DI BP

DI MAURO BOTTARELLI
ilsussidiario.net

Nella rubrica di oggi potevo parlarvi di Borsa, volatilità, crisi del debito, collocazione di bonds governativi e quant’altro: lo abbiamo fatto fino a oggi, riprenderemo a farlo dalla settimana prossima.

Quest’oggi parliamo della marea nera scatenata dal guasto all’impianto di British Petroleum nel Golfo del Messico, una tragedia ambientale che da settimane riempie pagine di giornali e le headlines dei principali tg. Per una volta non sembrano esserci dubbi nell’identificazione di buoni e cattivi: i primi sono i dirigenti della Bp, il secondo è Barack Obama che, dopo aver promesso di prendere a calci nel sedere i responsabili e passato ore a parlare con i pescatori della Louisiana, ieri ha mostrato una faccia ancor più dura.

I vertici dell’azienda petrolifera britannici, infatti, sono stati accolti con freddezza glaciale alla Casa Bianca e nonostante abbiano dato l’ok all’esborso di 20 miliardi di dollari per ripagare i danni causati, si sono sentiti rispondere dal numero uno della Casa Bianca che quella cifra «non rappresenta il tetto massimo». Ovvero, preparatevi a scucire molto altro denaro, ormai siete sotto scacco non mio ma dell’intero pianeta che vi odia a morte.

Sembra il film “Wag the dog”, una creazione mediatica straordinaria. Sono bastate, infatti, le immagini di quattro pennuti con le ali impiastrate di greggio e tre interviste ad altrettanti esperti pronti a proclamare la morte dell’oceano, per chiudere completamente gli occhi del mondo al molto altro che sta dietro alla vicenda che vede prootagonista la piattaforma Deepwater Horizon.

Lasciate stare che il paladino del mondo, ovvero Barack Obama, non più tardi di quattro mesi fa aveva autorizzato trivellazioni offshore anche nel “giardino delle rose” della Casa Bianca per non dipendere più dalla bizze ricattatorie dell’Opec e della speculazione otc sui futures, salvo ora trasformarsi nel Fulco Pratesi di turno, il problema è altro: che quell’incidente sarebbe accaduto lo si sapeva da mesi e mesi, era questione di tempo. Anzi, di timing visto che le implicazioni sono anche – e forse soprattutto – economche e finanziarie: prima delle quali, uccidere Bp, renderla scalabile e ottenere a prezzo di saldo le sue attività estrattive.

Cominciamo dal principio. La Deepwater Horizon, carta canta nei documenti ufficiali, è stata classificata fin dall’inizio della sua attività un progetto potenzialmente soggetto ai cosiddetto “low probability, high impact event”, classificazione che vede tra gli altri incidenti occorsi l’11 settembre, l’esplosione dello Shuttle e l’uragano Katrina: come per questi casi, l’ipotesi di “worst case scenario” è stata completamente ignorata. Con dolo o meno, lo scopriremo dopo.

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L’ inquinatore del Pianeta

Il ruolo del Pentagono nella catastrofe globale: aggiungere la devastazione climatica ai crimini di guerra, di Sara Flounders per Global Research

Tirando le somme della Conferenza di Copenhagen dell’ONU sul cambiamento climatico – con più di 15.000 partecipanti da 192 Paesi, compresi oltre 100 Capi di Stato, così come 100.000 manifestanti in piazza – è importante chiedersi: com’è possibile che il peggior inquinatore del Pianeta riguardo l’anidride carbonica ed altre emissioni tossiche non sia al centro di alcuna discussione della conferenza o proposta di restrizioni?
Sotto ogni rilevamento, il Pentagono è il maggiore fruitore istituzionale di prodotti petroliferi e di energia in generale. Eppure il Pentagono ha un esonero totale in tutti gli accordi internazionali sul clima.
Le guerre del Pentagono in Iraq ed Afghanistan; le sue operazioni segrete in Pakistan; il suo dislocamento su più di mille basi statunitensi nel mondo; le sue 6.000 infrastrutture negli USA; tutte le operazioni NATO; i suoi trasporti aerei, i jet, i test, l’addestramento e le vendite di armamenti non saranno calcolati nei limiti statunitensi riguardanti i gas serra o inclusi in alcun conteggio.
Il 17 febbraio 2007 il Bollettino Energetico calcolò il consumo di petrolio solo per aerei, navi, veicoli terrestri ed infrastrutture del Pentagono, che lo rendono il principale consumatore individuale di idrocarburi al mondo. All’epoca, la Marina statunitense aveva 285 navi da combattimento e da supporto e circa 4.000 velivoli operativi. L’Esercito statunitense aveva 28.000 mezzi corazzati, 140.000 veicoli multifunzionali su ruote ad alta mobilità, più di 4.000 elicotteri da combattimento, diverse centinaia di velivoli ad ala fissa ed un parco macchine pari a 187.493 veicoli. Eccezion fatta per 80 fra sommergibili e velivoli aerei a propulsione nucleare, i quali diffondono inquinamento radioattivo, tutti i loro altri veicoli sono alimentati con petrolio. Perfino secondo le graduatorie dell’Annuario Mondiale CIA del 2006, solamente 35 Paesi (fra i 210 al mondo) consumano più carburante al giorno del Pentagono. Le forze armate statunitensi usano ufficialmente 320.000 barili di petrolio al giorno. Comunque, questa somma non comprende la benzina consumata dai contractors o in strutture appaltate o privatizzate. Neppure comprende l’enorme quantità di energia e le risorse usate per produrre e mantenere il loro equipaggiamento apportatore di morte o le bombe, granate o missili che vengono sparati. Steve Kretzmann, direttore di Oil Change International, riferisce: “La guerra in Iraq è stata responsabile di almeno 141 milioni di tonnellate decimali di diossido di carbonio equivalente da marzo 2003 a dicembre 2007… La guerra emette più del 60% di tutti i Paesi… quest’informazione non è disponibile alla lettura… perché le emissioni militari all’estero sono esenti dai rilevamenti del rapporto nazionale sotto la legge statunitense e dalla Convenzione Quadro dell’ONU sul Cambiamento Climatico.” (www.naomiklein.org, 10 dicembre 2009). La maggioranza degli scienziati condanna le emissioni di biossido di carbonio con riferimento ai gas dell’effetto serra ed al cambiamento climatico. Bryan Farrell nel suo nuovo libro, La zona verde: i costi ambientali del militarismo, afferma che “il maggior singolo assalto all’ambiente, a tutti noi nel mondo, proviene da un agente… le Forze Armate degli Stati Uniti”. Allora il Pentagono come fa ad essere esentato da tutti gli accordi sul clima?

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