l’Iraq va verso una guerra civile

Adesso gli abitanti di Falluja, la città sunnita che più si battè contro gli invasori americani, sono terrorizzati perché le truppe Usa se ne vanno. Come si spiega questo paradosso? Con un altro, per capire il quale bisogna fare qualche passo indietro. È dal 1979, da quando la rivoluzione khomeinista abbatté il loro alleato, lo Scià di Persia (un feroce dittatore di cui però i rotocalchi occidentali davano un’immagine patinata, occupandosi delle eterne vacanze sue e delle sue mogli, Soraya, Farah Diba, facendo finta di non vedere che, nel frattempo, il 98% della popolazione moriva di fame, cosa che nel detestato «regime degli ayatollah» non avviene) che la politica americana è ferocemente antiraniana. Nel 1980, quando Saddam Hussein aggredì l’Iran, gli americani non batterono ciglio; si limitarono, come gli altri Paesi occidentali, a rifornire di armi entrambi i contendenti perché potessero ammazzarsi meglio. Intervennero nel 1985 quando l’esercito iraniano, tecnologicamente inferiore a quello iracheno, dopo inenarrabili sacrifici era davanti a Bassora e stava per prenderla. Intervennero per «ragioni umanitarie», naturalmente. Non si poteva permettere, dissero, alle «orde iraniane» di entrare a Bassora, sarebbe stato un massacro (gli eserciti altrui sono sempre «orde» o «terroristi»). Cominciarono quindi a rimpinzare Saddam di ogni genere di armi, comprese quelle chimiche.
Risultati dell’«intervento umanitario»: 1) La guerra, che sarebbe finita nel 1985, durò altri tre anni e il bilancio passò da 500 mila a un milione e mezzo di morti; 2) Gli iraniani non poterono inglobare la parte sciita dell’Iraq, come frutto della loro vittoria, che gli era stata scippata, e come è giusto e naturale che sia perché si tratta, dal punto di vista etnico e religioso, della stessa gente; 3) Saddam, che con la presa di Bassora sarebbe caduto come una pera cotta, si ritrovò invece in sella e pieno di armi. Cosa fa una rana con sul groppone un grattacielo di armi? Le rovescia sul primo posto che capita. Saddam invase il Kuwait. E fu la prima guerra del Golfo, formalmente legittima perché era stato invaso uno Stato sovrano (per la verità il Kuwait è un’invenzione degli americani, del 1960, ad uso dei loro interessi petroliferi). Ma che costò, per i forsennati bombardamenti degli americani, che non ebbero il fegato di affrontare fin da subito l’imbelle esercito iracheno, la morte di 158 mila civili (86.164 uomini, 39.812 donne, 32.195 bambini – dai del Pentagono). Poi venne la seconda guerra del Golfo che perse per strada tutte le sue motivazioni (le armi chimiche Saddam non le aveva più, le aveva usate sui curdi e sui soldati di Khomeini) per cui rimase solo quella che gli americani erano in Iraq per portarvi la democrazia. E in effetti, al prezzo di 750 mila morti, infinitamente di più di quanti ne avesse fatti Saddam in 30 anni di dittatura), una parodia di democrazia è stata instaurata in Iraq ma poiché la maggioranza della popolazione è sciita gli americani hanno, di fatto, consegnato buona parte dell’Iraq agli iraniani che sono confratelli di quelli iracheni. Così quello che l’Iran non aveva ottenuto nel 1985 col suo legittimo successo sul campo di battaglia, un quarto di secolo dopo se lo vede regalato involontariamente proprio dagli americani (sono i boomerang di tutte le guerre americane degli ultimi anni, dalla Serbia all’Afghanistan). In quanto ai sunniti e agli sciiti iracheni, si odiano mortalmente (solo una dittatura feroce come quella di Saddam poteva tenere insieme due comunità così ostili) e i sunniti temono, giustamente, di essere vittima, dopo la partenza degli americani, di ogni sorta di malversazione. La conseguenza più probabile è la guerra civile. Un altro bel colpo yankee.

Le metafore di Obama

Il discorso dI Obama sull’invio di nuovi soldati in quella che iniziò come guerra del golfo,  darà senz’altro avvio in terra patria a una serie infinita di dibattiti su fatto se anche la colonia italiana dovrà mandare ascari o meno sulle montagne afgane. Il tutto a partire dal buon Obama all’ultimo dei politologi italiani non e’ e non sarà altro che un panorama di metafore. Facciamo qualche passo indietro: vi ricordate il segretario di stato Baker? Citando testualmente le sue parole vaticinava; Saddam è seduto sulla nostra linea della vita economica. Il presidente di allora un certo Bush dipingeva Saddam come uno che esercita “una stretta mortale” sulla nostra economia. Il generale Schwarzkopf caratterizzava l’occupazione del Kuwait come uno “stupro” e a gran voce si faceva portatore del suo presidente., affermando che; gli Usa sono nel golfo ,per proteggere la, libertà, il nostro futuro,e proteggere gli innocenti e che dobbiamo ricacciare indietro Saddan.Hussein.

Passano i presidenti ma il tono rimane sempre quello , di grande crociata a difesa della civiltà occidentale

Saddam era visto  come Hitler. Questo è il punto fondamentale,per comprendere che ruolo sta giocando il pensiero metaforico nel condurci nuovamente alla guerra . Il pensiero metaforico in se stesso non è buono ne cattivo: è semplicemente inevitabile e banale. Le astrazioni e le situazioni troppo complesse vengono comunemente comprese mediante metafore. Esiste infatti un sistema di metafore, esteso,e principalmente inconscio , che noi usiamo in modo automatico per comprendere le complessità e le astrazioni. Parte di questo sistema è impegnato a capire le relazioni internazionali e la guerra. Attualmente sappiamo abbastanza , riguardo a questo sistema per avere un idea di come funzioni. La comprensione delle metafore di una situazione è articolata in due momenti .

Primo: esiste una serie di metafore diffuse e relativamente fisse che struttura il nostro modo di pensare ;per esempio, la decisione di entrare in guerra dovrebbe essere vista sotto forma di un analisi costi-vantaggi , in cui la guerra giustificata laddove i costi dell’intervento bellico siano minori rispetto ai costi derivati dal non entrare in guerra.

Secondo: esiste una serie di definizioni metaforiche che ci permette di applicare una data metafora a una particolare situazione .In questo caso, deve esserci una definizioni di “costi”

L’uso di una metafora con il suo bagaglio di definizioni diventa pernicioso quando nasconde la realtà in maniera nociva. E’ importante distinguere ciò che è metaforico da ciò che non lo è. Il dolore ,la morte, la povertà il ferimento,e la perdita di persone care non sono metaforici. Sono reali: e in guerra possono colpire decine ,forse centinaia di migliaia di essere umani reali, siano Iracheni,Afgani,Americani, o Italiani nel nostro caso. Gli esperti di strategia militare e relazioni internazionali utilizzano una metafora relativa all’analisi costi-vantaggi . Questo tipo di analisi passa attraverso una metafora che è considerata implicita dalla maggior parte degli analisti nell’area della politica internazionale. E’ la metafora di Clausewitz:<< la guerra è politica continuata con altri mezzi >> Karl von Clausewitz era un generale e polemologo prussiano che percepiva la guerra nei termini dell’analisi politica costi/vantaggi .Ogni nazione-stato ha degli obiettivi politici , e la guerra può essere funzionale a tali obiettivi. I guadagni politici devono essere valutati alla luce dei costi accettabili .Quando i costi della guerra sono maggiori dei guadagni politici , la guerra dovrebbe cessare. A questo punto si inserisce un’altra metafora implicita : la guerra è un business ben amministrato , cosi un governo ben condotto dovrebbe tenere una attenta contabilità dei costi e dei guadagni. Questa metafora per caratterizzare la politica , insieme alla metafora di Clausewitz, fa della guerra una questione di analisi costi/vantaggi:definire “obbiettivi”vantaggiosi , misurare i “costi” e decidere se conseguire gli obiettivi vuol dire “dare un valore” ai costi. Il “New York Time “ del 12/11/1990 più o meno si esprimeva in questi termini<< è iniziato un dibattito nazionale riguardante l’eventuale intervento militare americano nel golfo>> Il Times descriveva il dibattito nei termini definiti di Clausewitz e , quindi sollevava la questione <<Quale è l’obiettivo della nazione nel golfo? E quale livello di sacrificio può valere?>> Lo stesso dibattito è avvenuto nelle audizioni de Clausewitz l comitato per le relazioni estere del senato ( Senate Foreign Relations Commitee ) , in cui la metafora di . forniva l’intelaiatura dentro la quale molte discussioni hanno avuto luogo fino a partorire l’invio di alt Clausewitz ri 30.000 soldati americani in Afghanistan e chissà quanti Europei . L’ampia accettazione della metafora di  suscita interrogativi vitali:

Che cosa ,esattamente , la rende metafora piuttosto che una letterale verità?

Perché sembra cosi naturale per gli esperti di politica estera?

Come si inserisce nel sistema complessivo delle metafore per la comprensione delle relazioni estere e della guerra ?

E ciò che più conta , quali realtà nasconde ?