Lo sfogo degli schiavi

C’è una parola che, con anglofila e intrigante “verve”, si è insinuata nella coscienza comune del nostro paese, e che è diventata un pò una nuova religione: il weekend. Il fine settimana, per dirla alla casereccia, ha assurto, negli anni, a vero e proprio status symbol, con tutti i suoi derivati e connessi: happy hour, serate all’insegna del “divertimento” (leggesi sballo), frenesia anticipatoria da grande evento.Al di la delle differenze prettamente “sociali” del fenomeno, che, in luogo di un “giorno di riposo” che era altresì un momento di socializzazione, in cui si cementavano i rapporti che già si intrattenevano durante la settimana (nel lavoro, nell’osteria o bar di paese, nelle scuole e via dicendo), è diventato ora un “esodo” in una delle mecche del divertimento, luoghi spersonalizzanti in cui l’individuo, solo tra soli, è riconfermato più che mai nel suo anonimato collettivo, nel suo essere numero, quello che ci interessa è la sensazione diffusa di una “febbre da weekend”.
La sensazione cioè che ci siano migliaia di persone che “vivono” per inebetirsi di aperitivi, di serate in discoteca, con gli annessi di alcool e droghe, e via dicendo. Questo fa pensare che, nella realtà, a pochissime persone piaccia la propria vita.
Se il weekend diviene un momento di “sballo”, di fuga dalla realtà collettiva, di “finzione collettiva”, in cui molte volte si simula una personalità e una persona (nel senso di maschera), che non si è durante il resto della settimana, se ci sono persone che “vivono” letteralmente per questi due giorni, ci rendiamo conto facilmente che vi è un “disagio del quotidiano”, che prima non era avvertito.
Strano, perché ci avevano sempre fatto credere, prima della paradisiaca epoca moderna, che ha eliminato i frustranti lavori nei campi e a contatto con la natura e di artigianato manuale, per sostituirli con la più razionale catena di montaggio, che la gente si ammazzasse di lavoro, che fossero tutti degli epigoni di schiavi, che non avevano altra ragion d’essere.

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