Chi non impara a morire ogni volta

C’è un magnifico pioppo nero, lungo la strada che percorro quasi ogni giorno: un albero enorme, altissimo, con immensi palchi che si slanciano verso il cielo e una chioma smisurata, formata da milioni di foglie tremolanti, che, in questa stagione, assume una tinta arancio ed oro d’una bellezza straordinariamente voluttuosa, da mozzare il respiro. Sembra la chioma di una donna non più giovane, ma bellissima, giunta al culmine del suo fulgore e della sua sensualità: è un prodigio, letteralmente, uno di quei doni sfarzosi della natura che le parole sono incapaci di descrivere degnamente, e davanti ai quali si può solo tacere e ammirare in riverente, estatico silenzio.
Mi sono chiesto più volte quale sia il segreto ineffabile della bellezza, particolarmente di quella degli alberi, queste colonne maestose della grande cattedrale a cielo aperto che è il mondo della natura; e sono giunto alla conclusione che essa è racchiusa nella loro inaudita capacità di rinnovarsi, morendo, ogni anno. Di lasciar cadere le foglie, di ridurre al minimo le funzioni vitali, di sospendere, per così dire, la propria esistenza, in attesa del tepore rigenerante della primavera, che recherà il canto degli uccelli, le dolci piogge d’aprile e farà spuntare sui rami i germogli tenerissimi delle nuove foglioline, come un atto di fede nel domani.Ecco, questo è l’insegnamento: per sopravvivere, dobbiamo costantemente rinnovarci; e, per rinnovarci, dobbiamo imparare a morire, a far morire ogni giorno, anzi, ogni sera, l’uomo vecchio che è in noi, in attesa della rinascita, con le prime luci dell’alba, dell’uomo nuovo che germoglierà dalla nostra parte più profonda. Chi non impara a morire ogni volta, non può rinascere; e chi non rinasce, è come se vivesse già morto: è come se la sua vita fosse un’unica, lenta agonia. La vita di molti esseri umani somiglia ad un’unica, lenta agonia: di vive, non hanno che le apparenze; ma, in effetti, non c’è più vita in essi, e tutto si riduce a trascinare il proprio corpo, la propria muta desolazione e le proprie abitudini, sempre più logore e stanche, da un giorno all’altro, come avanzassero da un deserto all’altro, sfiniti, assetati.

la vita dell’anima invecchia e muore per stanchezza, per noia, per scoraggiamento; soprattutto, perché essa non sa più guardare al mondo con la freschezza, la gioia e l’entusiasmo di quand’era bambina, allorché ogni cosa le appariva nuova ed esaltante, circonfusa da un magico alone di indeterminatezza e di splendore.
Esiste un modo per renderla immortale: restituirle le fonti della sua freschezza; ridarle lo slancio, il candore, la dolce aspettativa che le erano connaturati al tempo in cui essa vedeva le cose per la prima volta e tutto le sembrava grande, misterioso e coinvolgente. Non guardava le cose con la fredda logica che non si meraviglia di nulla, ma con il calore e l’intensità di chi si fa tutt’uno con esse, le ama e desidera immergervisi senza riserve, per goderle a pieno.
L’anima del bambino è fresca e sensuale.
Non nel senso, ripugnante e innaturale, della psicanalisi freudiana, ma nel senso che tutto, per un’anima ancora vergine, è vibrante di emozioni; tutto è bello, tutto è incantato: il mondo è un palcoscenico meraviglioso ove la vita mette in scena, ad ogni nuova alba, uno spettacolo impareggiabilmente fastoso ed esaltante.
Osservate un bambino quando, in una calda sera d’estate, crolla nel suo lettino, vinto all’improvviso dalla stanchezza, sazio di giochi, di corse, di sogni: piomba nel sonno come in un giardino incantato.
Al mattino, ricostituite le energie, egli è pronto per una nuova scoperta del mondo: tutto è motivo di meraviglia, per lui; tutto lo avvince, lo tiene, lo appassiona; tutto lo seduce e lo eccita terribilmente (stiamo parlando di un vero bambino, naturalmente, e non di uno di quei tristi, precoci vecchietti che genitori irresponsabili hanno cresciuto in condizioni totalmente artificiali, in mezzo a computer e giochi elettronici).
Così dovremmo fare anche noi.
Anche noi, ogni sera, dovremmo coricarci sazi di cose belle, di dolci pensieri, di progetti entusiasmanti; e sprofondarci nel sonno, lasciando che esso distrugga la nostra parte caduca, vecchia, incredula e saccente, per consentire la rinascita di quella permanente, gioiosa, libera e aperta allo stupore.
Solo così potremo sottrarci alla logica del logoramento, della ripetitività, del disincanto; solo così potremo sottrarci alla morte per consunzione della nostra anima.

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L’errore fondamentale è quello di attaccarsi alle cose, dunque anche al proprio ego, che si fonda sul senso di una permanenza illusoria, di una continuità forzata.
Non c’è nulla a cui attaccarsi, per chi abbia compreso che il senso della vita è lasciarsi andare verso la pienezza dell’Essere, che, sola, può colmare di significato il nostro vuoto, la nostra indigenza, che siamo soliti nascondere e addobbare con cento e cento inutili orpelli.
Lasciarsi andare alla pienezza dell’Essere, abbandonarsi con fiducia verso il suo splendore, riconoscendo la nostra piccolezza e la nostra puerile ansia di aggrapparci a ciò che è impermanente, a ciò che non può fornirci alcun solido appoggio.
Ogni sera dovremmo morire a noi stessi, al nostro falso ego, alla nostra brama e alla nostra paura, a tutto quel complesso di passioni contraddittorie che ci tiene incatenati alle nostre illusioni e alle nostre sofferenze, come i forzati venivano incatenati ai banchi di una nave a remi.
Saremmo capaci di farlo, se realmente ci volessimo bene.
Ma non ce ne vogliamo: crediamo di volercene, mentre è vero il contrario: non ci vogliamo bene, perché non ci riteniamo meritevoli dello splendore e della pace. Se lo credessimo davvero, allora capiremmo che lo splendore e la pace dell’anima sono qui, ma proprio qui, a portata di mano: che lo sono sempre stati, anche nei momenti di più acuta sofferenza.
Così, per la paura di perderci, rimaniamo aggrappati a tutto quello che ci procura ansia, delusione e sofferenza; per la paura di perdere il nostro falso ego, le nostre false sicurezze, i nostri falsi punti di riferimento, finiamo per perdere veramente noi stessi.
Il segreto per ritrovarsi, è lasciarsi andare; quello per rinascere, è imparare a morire: continuamente, ogni giorno della nostra vita.
In India, quando un uomo decide di cambiare vita e di lasciare la famiglia per vivere in solitudine e meditazione, per prima cosa prende un nuovo nome: un po’ come avviene nei nostri monasteri, quando un frate o una suora si distaccano dal secolo. Quel nuovo nome sta a significare che è incominciata una nuova vita, che l’uomo vecchio è sparito, non c’è più.
Ma accade anche, sempre in India, che quell’uomo non prenda più alcun none: egli diviene così «il senza nome», simbolo di una volontà di distacco senza compromessi né ripensamenti, pura e incondizionata.
Ciascuno di noi dovrebbe terminare la propria giornata prendendo congedo dall’uomo vecchio che è in lui, e aprire gli occhi alla luce del primo mattino come se fosse divenuto un uomo nuovo e diverso.
Così dovremmo incominciare l’avventura della nuova giornata: aprire gli occhi come se fosse per la prima volta e riscoprire il mondo in tutta la incantevole fragranza e in tutta la sua incomparabile numinosità: ogni giorno ci si dovrebbe presentare sotto la luce di una autentica epifania, di una rivelazione arcana.
Noi siamo stati fatti per esso ed esso è stato fatto per noi: come due amanti appassionati e fedeli, noi e il mondo siamo come le due facce di un’unica realtà.
Non siamo due cose distinte, ma una cosa sola, infinitamente armoniosa.

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Il grande pioppo sussurra nella chiara luce del mattino e le sue innumerevoli foglie, simili a scaglie di luce sul mare, tremolano e palpitano come percorse da una dolce carezza.
Un alone di sole lo avvolge, lo incendia, lo trasfigura; e ogni ramo, ogni fronda dondolano nell’aria, piegandosi in una danza gentile.
In esso è la forza, ma anche la delicatezza; è un gigante dalle movenze leggere e aggraziate, con le radici ben piantate nella terra e la cima che si protende nell’azzurro infinito.
Quando siamo tristi e abbattuti, sopraffatti dallo sgomento e dalla delusione, dovremmo levare lo sguardo a questi nostri possenti amici, a questi formidabili compagni di viaggio i quali, con il mormorio del loro fogliame lucente, ci sussurrano tante e tante cose soavi, piene di saggezza e di profondità.
Dobbiamo imparare da loro, che hanno visto cento stagioni e accumulato tanta saggezza, pazienza e tenacia; che hanno vissuto cento autunni gloriosi e cento primavere smaglianti; che hanno bevuto la pioggia e la neve d’infiniti inverni, e si sono accaldati nella vampa di infinite estati, inebriandosi al venticello fresco che spira dal mare.
L’albero non resiste, l’albero non si attacca.
Al contrario, si abbandona con fiducia, lui così grande e poderoso, al gelo di gennaio e all’ardore di luglio; non si aggrappa, si lascia andare: e, al tempo stesso, offre ombra e riparo a innumerevoli uccelli, come un gigante generoso che spalanca i cancelli del giardino a un esercito di bimbi schiamazzanti.
L’albero è felice, perché la sua vita è in sintonia con quella del sole e della pioggia, dell’aria e della terra, del passato e del futuro. Generazioni di uomini si muovono sotto di lui: bambini che giocano intorno al suo tronco e si arrampicano sui suoi rami, e che poi saranno vecchi, e leggeranno il giornale sulla panchina, all’ombra della sua chioma.
E così di generazione in generazione, a volte per centinaia d’anni.
Vi sono alberi che erano già antichi quando Colombo scoprì l’America e quando Dante scrisse i suoi versi; che erano già antichi quando Augusto fondò l’Impero e quando Eratostene misurò la circonferenza della Terra.
Dobbiamo imparare da loro.
Con i piedi affondati nella terra, con lo sguardo rivolto al Cielo, dobbiamo imparare a fidarci e ad abbandonarci in grembo all’Essere, prendendo congedo dalle nostre false sicurezze e dalle nostre irragionevoli paure.
Non siamo venuti al mondo per aggrapparci a ciò che non può darci alcun sostegno, ma per lasciarci andare alla forza benefica che ci sorreggerà, se noi crederemo in essa.
Dobbiamo imparare a morire, per poter rinascere; dobbiamo imparare ad affidare alle correnti la nostra fragile barchetta, con perfetta fiducia e lieto volto.
Solo perdendoci, ci ritroveremo: e, insieme a noi, ritroveremo tutte le cose belle, tutte le cose che rendono la vita degna di essere vissuta.
Tutto il resto – le brame, le paure, le illusioni – spariranno, verranno portate via come i rami spezzati dalla corrente del fiume in piena.
Resterà solo ciò che è destinato a durare, solo la parte più intima e profonda di noi stessi, purificata e restituita a nuova vita.
Sarà bello.
Sarà come quando, bambini, dopo un dolce sonno ristoratore, spalancavamo di nuovo gli occhi sullo spettacolo del mondo, vedendolo come se fosse per la prima volta.

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