Perché incontrarsi quando poi il destino ci obbliga a perderci?

«Perché incontrarsi quando poi il destino ci obbliga a perderci?», si domanda il protagonista di un racconto di Emilio Del Bel Belluz, «Il legionario dannunziano»; interrogativo notevole, cui si potrebbe ricondurre la vicenda umana universale, e non solo quella di pochi individui coinvolti da circostanze speciali.
Anche lo scrittore ungherese Ferenc Körmendi ne aveva fatto oggetto di un romanzo assai fortunato negli anni Trenta, anche se di non eccelso valore letterario (e dal quale, in Italia, nel 1983 è stata ricavata una miniserie televisiva per la regia di Mario Foglietti), significativamente intitolato «Incontrarsi e dirsi addio».
Tutti, prima o poi, dobbiamo lasciare le persone che abbiamo incontrato lungo le strade della vita: le persone che amiamo, le persone alle quali ci sentiamo legati da profondi vincoli di affetto; tutti, quando arriva la fine della nostra esistenza terrena.
D’altra parte, anche senza spingere la riflessione su questo versante, così universale e così malinconico, resta il fatto che tutti, o quasi tutti, hanno fatto la singolare esperienza di incontrare delle persone con le quali si è stabilita un’intesa immediata e profonda; di incontrarle quando non se lo aspettavano, quando non lo credevano possibile, sì da vivere tali incontri come una rivelazione, se non come un vero e proprio segno del destino; e di trovarsene poi separati da circostanze esterne più o meno brusche, più o meno imponderabili, ricavandone un senso di vuoto esistenziale, tanto più incolmabile, quanto più profonda era stata la sensazione di intimità.
Vi sono persone che hanno fatto simili incontri nella loro prima giovinezza o addirittura nell’adolescenza, se non nell’infanzia; e ne sono rimaste così toccate, che tutta la loro vita si è poi svolta nella nostalgia e nel rammarico di quel sogno sfumato, di quella rivelazione delusa, di quella promessa di felicità tradita.
A volte tali persone si sono lasciate andare ad una cupa malinconia, che ha condizionato tutta l’evoluzione della loro vita interiore, così come quella di relazione; altre volte hanno nascosto a tutti la loro ferita, comprimendola per evitare che sanguinasse troppo copiosamente, e si sono sforzate di mostrarsi intraprendenti e dinamiche, niente affatto inclini alle fantasticherie, forse per nascondere dietro una corazza protettiva la coscienza della propria vulnerabilità.
Persone deluse, che si sono sentite oggetto di una beffa crudele da parte del destino: perché aver fatto un incontro così eccezionale, se poi la vita si è rimangiata ogni promessa e le ha lasciate ancor più nude e sole di prima, dopo averle illuse? Non sarebbe stato preferibile non sfiorare nemmeno quella meravigliosa sensazione di sentirsi in comunione profonda con un altro essere umano, per non dover poi sentire, più duramente di prima, il peso del disinganno?
Ora, se realmente il destino si divertisse a giocarci scherzi del genere, questo sarebbe un grave atto di accusa contro la vita stessa, un atto di accusa di tutto rispetto, tale da mettere in imbarazzo i più insigni filosofi e teologi: perché – parliamoci chiaro- le soddisfazioni professionali, sportive, artistiche, sono una gran bella cosa per chi le sperimenta, e così pure le gioie tranquille della famiglia e dell’amicizia; ma nessuna di esse può reggere il confronto con i sentimenti esaltanti, inesprimibili, che afferrano l’anima, quando essa riconosce al volo un’altra anima a lei affine e si inebria al senso di luminosa pienezza che scaturisce da un tale incontro.

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PODERE IL SANTO

Oggi è davvero difficile trovare un vino cattivo, ma parallelamente è diventato complicato scoprirne uno realmente “tipico”.
Infatti gran parte della viticoltura odierna è basata su trattamenti anticrittogamici, diserbanti e concimazioni chimiche che, pur permesse dalla legge, modificano la “vita biologica” dei vigneti azzerando quegli ecosistemi unici ed inimitabili dai quali la vera tipicità si origina. Se a questo si affianca un’enologia tecnologicamente avanzata ma che standardizza il vino il quadro è completo: parlare di tipicità e naturalità diventa sempre più un funambolico esercizio dialettico.
Eppure coltivare un’uva naturale, cioè con maggior rispetto per l’ambiente, è soltanto il primo passo, perché il vino è un prodotto di trasformazione che necessita di sensibilità ecologica anche in cantina.
Lieviti autoctoni, nessuna presenza di additivi in vinificazione e tecnologia non invadente sono il credo di una nutrita pattuglia di produttori “duri e puri” che in tutto il mondo stanno dimostrando con i fatti che il binomio naturalità e qualità è possibile.
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