E’ un dato che colpisce, nella miriade di numeri sapientemente illustrati in una particolare storia economica della società italiana: quella de “Le famiglie italiane”, scritta dagli economisti della Luigi Cannari e Giovanni D’Alessio, per la collana del Mulino dedicata alla divulgazione di base delle scienze sociali, e intitolata appunto “Farsi un’idea”.
Ecco, per farsi un’idea di come sono andate le cose per la generazione di donne e uomini che adesso è in pensione, ricordiamoci questi numeri: dal ’55 al ’65 la percentuale di famiglie – ma diciamo pure: di donne – in possesso di lavatrice è salita dal 2 al 23%. Tanto. Ma ancora pochissimo, rispetto ai bisogni.
Quel dato dice che tre donne su quattro dovevano lavare a mano lenzuola, vestiti e biancheria pur essendo disponibile e accessibile una fantastica tecnologia che poteva evitare quella fatica. Una tecnologia lenta a trasformarsi in benessere collettivo. Più veloce era stata la diffusione di tv e frigorifero, il cui possesso balzò negli stessi anni dal 10 al 50% delle famiglie. Ci si chiede perché, mentre si immaginano soddisfatti capifamiglia – breadwinner, dicono gli economisti – sedersi davanti alla tv in bianco e nero comprata a rate mentre qualcuna lava le camicie.
Poi si va alla pagina successiva, e si vede un’altra evoluzione non neutrale della tecnologia, più recente: il possesso di cellulari, balzato dal 21 al 73% tra il ’97 e il 2004 (ma adesso staremo molto più su); e quello dei computer, per il quale l’ultimo dato è più recente, e parla di una diffusione al 46,1% delle famiglie nel 2006; in tre casi su quattro, si precisa, al possesso dei computer si associa una connessione internet. Che di certo conta – o potrebbe contare, dipende dagli usi – almeno tanto quanto la lavatrice, nella diffusione del benessere collettivo.
Il libro di Cannari e D’Alessio non è incentrato su lavatrici e telefonini; ma lo spiccare di alcuni dati di questo tipo fa capire come la lettura ponderata dei numeri possa emancipare l’economia da quella “dittatura del Pil” che adesso è da tutte le parti sotto accusa e processo.
Anche da parte degli stessi autori del libro, economisti di rito ortodosso – non certo dei pericolosi picconatori della “scienza triste” – che però assumono e spiegano in parole semplici tutte le novità che sono intervenute, con particolare visibilità negli ultimi anni, nella misurazione di “ricchezza, povertà e felicità”. Il libro si apre proprio con un capitolo, “misurare il benessere”, che di questo dibattito riporta il succo e il senso; e poi ne sviluppa le premesse, evitando di fare una storia dei bilanci delle famiglie italiane tutta centrata su una limitata misurazione di Pil, consumi e redditi.
Che ovviamente sono importanti, ma che non spiegano quello che è il paradosso centrale attorno a cui si sviluppano i dilemmi delle famiglie italiane: perché alla costante ascesa degli indicatori di benessere materiale non corrisponde una parallela e proporzionale ascesa degli indicatori, soggettivi e oggettivi, del benessere e della felicità pubblica? Colpa della rappresentazione dei media, come dice il padrone e presidente di gran parte dei nostri media? Colpa di una “crisi di crescita”, per cui quando ci si emancipa dai bisogni più immediati e materiali le aspettative e le pretese diventano più alte? Colpa delle forti diseguaglianze che caratterizzano il nostro paese, e che ovunque – è stato argomentato nel libro brillante di Wilkinson e Pickett “La misura dell’anima” – rendono più infelici e meno competitive le società? Colpa della globalizzazione, che ci mette a confronto con chi fa meglio, più velocemente e con più mezzi? O è colpa della nostra incapacità collettiva a tener dietro a tutti questi mutamenti messi insieme?
Sono domande cruciali, non solo per l’interesse teorico di un libro – importante, proprio perché divulgativo -, ma soprattutto per la fase critica in cui è tornato ad avvitarsi il nostro sistema, mentre la scena politica non se ne cura e recita un soggetto tutto autoreferenziale. Il viaggio nei numeri raccontato nel libro risponde a molte di queste domande, e soprattutto sottolinea l’importanza dell’ultima, del fattore politico e istituzionale. “I grandi cambiamenti che hanno caratterizzato la società italiana hanno generato bisogni nuovi cui le istituzioni non sono sempre stato in grado di dare risposte adeguate”, si legge nel libro. E i cambiamenti, e vederli rapidamente scorrere in numeri, sono davvero grandi: il passaggio rapido da una società di giovani a una società di anziani; da un paesi di emigrazione a un paese di immigrazione; da strutture familiari allargate a nuclei familiari ristretti; e insieme, l’ascesa dell’occupazione femminile, la forte crescita dell’istruzione superiore e universitaria, il balzo della proprietà delle abitazioni… Tutti fenomeni che spesso hanno un impatto non univoco sul benessere e sulla convivenza sociale.
Prendiamo per esempio l’aspetto distributivo: l’eguaglianza, valore un po’ fuori dalle mode politiche degli ultimi decenni. A guardarne l’andamento generale, l’indice che misura il grado di diseguaglianza della società italiana ci dice due cose: che siamo una delle società più diseguali del mondo ricco, allineati con gli anglosassoni; e che la diseguaglianza si è progressivamente ridotta negli anni ’60 e ’70, per poi riprendere a crescere e infine stabilizzarsi. Un dato che riflette una storia nota – l’ascesa del potere organizzato del lavoro dipendente, e l’esito delle rivendicazioni sul salario e sul welfare negli anni ’70, e poi il suo declino -, ma che nasconde molte altre sfaccettature.
Ad esempio, il progressivo ridursi del ruolo redistribuivo della famiglia (evidente quando si comparano gli indici delle famiglie e quelli degli individui); l’andamento a fisarmonica del rapporto tra la categoria dei dipendenti e quella degli autonomi/imprenditori, con questi ultimi che si sono ripresi rapidamente il terreno lasciato nel decennio “egualitario”; e il disastroso gap generazionale. Gran parte della riduzione della diseguaglianza, si legge nel libro, è dovuta al fatto che aumentano i percettori di reddito: e questi aumentano soprattutto tra gli anziani. Il che non vuol dire che i vecchi sono tutti ricchi, ma che certo sono più ricchi di trent’anni fa; e questo rende la società nella media più “eguale”, ma va anche a compensare, nelle medie, l’aumento della diseguaglianza tra i giovani e tra le generazioni.
Rischiamo di essere una società assai più disuguale di quel che sembra. E anche molto poco attrezzata al futuro, per una serie di criticità che – se si esclude quella “storica” del divario Nord/Sud, clamorosamente confermata negli anni – negli ultimi tempi si sono andate tutte addensando sulle fasce giovani della popolazione: l’incertezza lavorativa; i deludenti dati sugli esiti scolastici – i test internazionali sulle competenze, che fanno da contraltare ai numeri positivi sulla diffusione di lauree e diplomi; le difficoltà abitative; la scarsissima mobilità sociale e generazionale.
Gli autori non si iscrivono al partito del declino o del pessimismo: servono più istituzioni e più collaborazione, dicono, ripartendo equamente il peso tra politica e società, e rifiutando implicitamente il facile luogo comune per cui tutto il bene sta di qua e tutto il male sta di là.
Luigi Cannari, Giovanni D’Alessio, Le famiglie italiane. Ricchezza, povertà e felicità dal dopoguerra ad oggi, Il Mulino, 2010, euro 9,80,