Il telecomando

Ebbene, devo confessarlo, seppur sottovoce e tenendomi alla larga da orecchie indiscrete, da ormai un anno ho spento la TV . O meglio la “rivoluzionaria” tecnologia del digitale terrestre ha eliminato dal palinsesto televisivo la mia casetta arroccata sui monti, ma io non ho mosso un dito per porre rimedio al problema. Sarebbe stato sufficiente acquistare una parabola in sconto convenienza negli scaffali brulicanti di tecnologia dentro a un qualche centro commerciale, per riappropriarmi del caleidoscopio di colori con annessa cacofonia di sottofondo, ma non me la sono sentita. L’ho abbandonata senza vita là, sul vecchio mobile di mia nonna, dove allignava ormai da molti anni, senza neppure tentare di rianimarla e giorno dopo giorno sto imparando ad ignorarla. Nelle prime settimane non è stato facile, lo schermo nero occhieggiava accattivante facendo leva sulla forza dell’abitudine, invitandomi a prendere in mano il telecomando, per immergermi nella melassa infopubblicitaria di un “telebugia”, nella tenzone simulata di un dibattito politico, nella superficialità di un falso approfondimento giornalistico, nello stupidario della pubblicità a pioggia, annegata all’interno di un serial poliziesco , nella babele multiforme del calcio “parlato”, mero succedaneo di quello giocato trasmesso a pagamento, nei gingle ipnotici degli spot dei telefonini, nelle voci rassicuranti degli esperti che dissertano con dotte disquisizioni nel merito delle ultime tendenze stagionali, sciorinando cifre, dati e granitiche certezze estrapolate direttamente dalla bibbia del progresso….

Non è stato facile ma ce l’ho fatta!
Il telecomando è rimasto ad impolverarsi in un recondito andito di cui neppure ricordo più l’ubicazione e la TV ha mutuato la propria “nobile” funzione di macchina per il lavaggio del pensiero in quella molto più modesta di ammennicolo pressochè inutile, facente parte dell’arredo casalingo.

Da allora è sorto il problema, ogni qualvolta attraverso la stanza per andarmi a versare un bicchiere d’acqua, mi siedo a tavola per cenare o mi accomodo sul divano a leggere un libro, la TV mi guarda in cagnesco. Niente più occhiate ammiccanti, ma uno sguardo duro, severo, ammonitore. Come se fra il nero di quello schermo si annidassero stizziti e carichi di riprovevole sdegno, gli sguardi di Maria De Filippi, Santoro, Floris , Minzolini, Belen, Piero Angela, Fede e tutto il resto del bestiario deputato ad animare il tubo catodico ed i moderni schermi lcd.

Mi guarda in cagnesco reiteratamente e in maniera insistente, ma io faccio l’indifferente e fingo di non vedere. Prima o poi le passerà e si adeguerà ad essere parte del mobilio senza troppe pretese, il cervello in fondo è troppo importante per affidarlo a un telecomando.

Codice 46 – Code 46 rivedendo……………

Devo dire che lo stupore è stato il primo sentimento verso il film di Michael Winterbottom (Cose di questo mondo), fantascienza? O comunque prossimo futuro, fantapolitica, società possibili o quant’altro? Non vedevo Winterbottom nei panni di un autore adatto. L’inizio di Code 46 mi ha clamorosamente smentito, ho avuto la sensazione di trovarmi di fronte ad un nuovo Gattaca. Una società futuribile molto ben costruita, pensata nei dettagli (anche i più piccoli, quelli che fanno la differenza), una trama accattivante che toccasse non solo storie dei protagonisti, ma che si muovesse all’interno dello studio di una società possibile, denunciandone pregi e difetti, e, non ultimo, un interprete come Tim Robbins, una sorta di garanzia. Peccato che poi il film abbia disatteso praticamente tutto tranne le indubbie qualità di Robbins. La trama piena di buchi narrativi, le forzature incomprensibili nel comportamento dei personaggi e la sensazione di un’enorme confusione anche nella testa del regista. Forse una seconda visione potrebbe essere maggiormente chiarificatrice, ma nel complesso è come se si brancolasse costantemente nel dubbio, proprio come i personaggi. William (Tim Robbins / S.Y.N.A.P.S.E.) è un ispettore delle assicurazioni Sphinx, una sorta di grande fratello del futuro, che ha il compito di scoprire un falsario nel loro stabilimento di produzione di certificati. La società odierna non può permettersi l’onere di avere all’interno persone che non abbiano un’adeguata copertura sulla vita ed, allo stesso tempo, la Sphinx non può permettersi di pagare indennizzi di ogni tipo, quindi chiunque vive all’interno della società deve avere un certificato di assicurazione e chiunque voglia fare qualunque cosa che esuli dalla normale routine deve avere un’adeguata autorizzazione dalla Sphinx, altrimenti: nisba, nada, nix… In questo contesto di “prigionieri del proprio benessere”, falsificare un certificato consente di essere liberi e Maria (Samantha Morton / Minority Report) è una delle persone che a suo modo lotta contro questo sistema. Il motivo per cui William fa l’ispettore sono le sue capacità empatiche che gli consentono di smascherare i colpevoli in pochi istanti, esattamente quelli che impiega per innamorarsi perdutamente di Maria e quindi coprirla ed imbastire una storia con lei. Ma in un mondo dove tutti sono sotto controllo e dove lo slogan della Sphinx è: “noi sappiamo tutto di tutti” non c’è scampo per chi vuole uscire dagli schemi. Alla fine vaghiamo per il film nella stessa desolazione che accompagna la fuga dei protagonisti sperando che anche per noi ci sia la possibilità di un nuovo inizio