La lunga storia di un flirt eretico

Nel 1932, anno X dell’era fascista, un noto e fiero anarchico fiorentino, Ricci Alberto detto Berto, scrittore, poeta, pubblicista di varia letteratura, presentò alla federazione locale domanda di iscrizione al Pnf. Secondo prassi, gli fu chiesto: «perché non si è iscritto prima?». Al che, l’istante replicò con un onesto: «Perché ero di idee contrarie». Come burocrazia vuole, l’istanza arrivò sul tavolo del federale locale, Alessandro Pavolini, che oppose un deciso “No” alla richiesta. Motivo del rifiuto, testuale: «Ha dimostrato in passato idee anarchiche». Per il responso finale, però, la pratica passò agli uffici romani del segretario nazionale del partito, all’epoca: Arturo Marpicati che, letti gli atti, approvò l’iscrizione apponendo in calce il motivo del rigetto ostativo: «E noi fascisti non si era forse anarchici?».

Reputandolo utile a tracciare il profilo, per quanto parziale, d’un prototipo anarco-fascista, converrà seguire, ancora per un attimo, il percorso biointellettuale di Berto Ricci. Partiamo dalla fine. Ricci morì, mitragliato da uno Spitfire, il 2 febbraio 1941 nella guerra d’Africa, dove era voluto andare volontario, vincendo le solite resistenze burocratiche. «Di idee contrarie», lo fu prima, durante e dopo la sua iscrizione al partito fascista. Contrario a tutto per vocazione eretica, etorodossa e per spirito di contraddizione, fu fedele solo alla sua esclusivissima idea di fascismo che gli germinò, intorno al 1927, per semina stirneriana, soreliana e nicciana. Gli ci vollero cinque anni per convincersi del suo destino e altri due per ottenere la tessera. Ma quel che era nel suo Dna, alla fine emerse. Il gioco che più lo appassionava era lasciar zampillare scintille dall’accostamento violento delle idee in libera contraddizione. Anarchico e antinazionalista ma per l’impero: «che realizzerà la Monarchia di Dante e il Concilio di Mazzini»; anticapitalista ma per l’evoluzione del proletariato in proprietari; per una tradizione civile ma «arricchita di millenaria cristianità, sostanzialmente e robustamente pagana»; realista, in antitesi all’idealismo di Gentile, ma utopista; anticomunista ma «l’antiroma non è a Mosca è a Chicago: la capitale del maiale» perché «la rivoluzione comunista ha fatto bene a se stessa»; fascista di sinistra ma non ostile a quello di destra, perché «il nemico numero uno, fu e resta il centro, cioè la mediocrità accomodante. Il centro è compromesso, noi siamo l’affermazione simultanea degli estremi, nella loro totalità».

Poca roba, si dirà: la vicenda di uno scrittore un po’ stravagante non può invalidare una consolidato pregiudizio antitetico dei due poli in questione. Tanto più se si considera dove vanno a parare in via definitiva i due percorsi: in “nessuno stato”, l’anarchia, e addirittura nello “stato etico”, il fascismo. Iato che però si accorcia se consideriamo le cose da un punto di vista ontologico: entrambe le scuole predicano l’assunzione diretta delle responsabilità dell’azione individuale e il primato dell’azione sulla teoria. E proprio qui scatta il corto circuito che brucia le distanze e produce quel flirt che consentirà a Ricci e ad altri anarchici di indossare la camicia nera e farsi agenti della rivoluzione fascista. Citerò solo alcuni dei casi più illustri. Accadde all’artista e poeta Lorenzo Viani, anarchico della compagnia di Errico Malatesta, che partì progettando una Repubblica sociale dell’Apuania e continuò la sua milizia politica da squadrista. Accadde a Leandro Arpinati che, prima di cadere in disgrazia presso Mussolini, fu importante gerarca del regime. Si definiva anarchico Giovanni Papini, e conosciamo il suo percorso ulteriore. Lo era pure Marcello Gallian che, ancora col fiocco nero dell’anarchia al collo, fu tra i fascisti della prima ora in Piazza San Sepolcro a Milano, legionario dell’impresa fiumana e, tre anni dopo, marciatore su Roma, rimanendo sempre, però, quel dannato sovversivo che era. Erano tutti ciechi, tanto da non vedere le differenze e talmente stupidi da non accorgersi della contraddizione? Proprio Marcello Gallian, a chi gli chiedeva i motivi della sua “conversione” rispose: «Non sono adatto a conversioni. Io ho creato un Cristo per me, ho creato un Mussolini per me, ho creato un mondo rivoluzionario tutto per me, secondo i miei punti di vista necessari e sinistri». Non vi sembra sentire riecheggiare nelle parole di quest’altro anarco-fascista a tutto tondo quelle del riconosciuto padre dell’anarchia tout court? Quel Max Stirner che ne Der Einzige und sein Eigentum (L’unico e la sua proprietà), pubblicato a Lipsia nel 1844, affermava: «Il mio potere è la mia proprietà, il mio potere mi dà la proprietà. Io stesso sono il mio potere… e per esso sono la mia proprietà».

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Il fallimento della civiltà tecnologica

Progresso, da pro-gredi, significa andare avanti. Ma avanti non significa niente, se non si stabilisce in quale direzione. Senza una direzione prestabilita, qualsiasi spostamento è “in avanti”, anche quello proverbiale dei gamberi. E il difetto del progresso umano (concetto recente, che non ha ancora quattro secoli) è stato proprio quello di andare “avanti” con grande entusiasmo, senza affatto chiedersi quale fosse la direzione giusta. Neppure il grossolano criterio dell’ “aumento”, è un criterio accettabile. Anche il cancro, aumenta, e il suo maligno aumentare lo rende letale. C’è veramente da chiedersi come una concezione così vacua come quella progressista, del tutto ignota agli antichi Maestri, abbia potuto prendere piede tra esseri raziocinanti, come gli uomini “sapiens” si piccano di essere. E, a rifletterci un momento, ci si rende conti che la relativa mentalità non è stata che l’arbitraria generalizzazione dell’indubbio progresso tecnologico. E’ l’unico per cui non si possano avere dubbi, perché quello, la direzione, ce l’ha avuta. E, purtroppo, è stata quella dettata, non dalle forze attive che esaltano il valore dell’Uomo, ma dalle debolezze che lo deprimono. E’ stata la ricerca di diminuire lo sforzo e la fatica, di evitare il pericolo, di esigere minore allenamento e abilità, di ottenere risultati sempre maggiori di quelli necessari, di procurarsi comodità e godimenti, infine di dominare e saccheggiare la natura, anziché inserirsi in essa, come si era sempre fatto. Grazie al progresso tecnologico, si è passati, con ritmo costantemente accelerato, dalle amigdale e dai raschietti di pietra, ottenuti con pochi abili colpi da un sasso qualunque, alle sbalorditive possibilità di cui dispone l’uomo attuale. Una meraviglia! Macché! Non risulta affatto che oggi la gente sia neanche un briciolo più felice o sicura, o soddisfatta di quando cacciava, a piedi, i Mammut. Anzi, a sentirli, pare che siano tutti oppressi, defraudati, bistrattati. Soprattutto nei paesi più “progrediti”, uno che si dichiari contento del proprio stato è un’autentica mosca bianca. Insomma, pare proprio che, ad onta dei suoi infiniti ed ingegnosissimi ammennicoli, il progresso tecnologico abbia raggiunto tutto, fuorché il fine che si proponeva.
E non poteva essere altrimenti, perché la causa del fallimento è stata insita nella natura stessa di quel tipo di progresso. Sostituendo infatti esso, capacità umane con sostituti meccanici, ed essendo questi ultimi fabbricabili e acquistabili solo con quantità ingenti di denaro, il progresso tecnologico fu, come è
ben noto, padre del capitalismo, che a sua volta assecondò al massimo il primo. Il capitalismo tende inevitabilmente a trasformarsi in plutocrazia, e cioè il potere economico a divenire potere politico. E le autentiche capacità umane, atrofizzandosi per difetto di esercizio, sono sempre meno in grado di opporvisi.
Non occorre aggiungere verbo ai tanti già detti e scritti, da noi e da altri migliori di noi, anc

he su queste colonne, per illustrare le turpi conseguenze di ogni genere che la plutocrazia egemone ha apportato all’Italia e al mondo. Esse sono tali e così palesi, che i popoli stessi dovrebbero sollevarsi e far giustizia dei plutocrati e dei loro scherani che succhiano il loro sangue.
Ma ciò è impossibile. Era ancora possibile, in casi estremi, un secolo addietro; ora non lo è più. I popoli sono stati posti nell’impossibilità di difendersi. E che cosa determina tale impotenza? La risposta è orribile: proprio la tecnologia!
Nata nell’illusione di giovare, la tecnologia si è infatti trasformata nel più tremendo nemico dell’umanità, nella maggiore alleata dei suoi distruttori, sotto due principali aspetti:
Intanto, la naturale capacità delle persone di comunicare tra loro, sancita dalla natura, era quella giusta. Aumentandola a dismisura, fino all’attuale generalizzazione delle comunicazioni via etere, è diventata la possibilità, per i soliti plutocrati, di compiere, per i propri squallidi fini, il lavaggio del cervello di massa, privando i popoli persino del rozzo buon senso e dell’esperienza che poteva guidarli.
E poi, la tecnologia delle armi distruttive, che, da semplici “prolungamenti” del braccio del guerriero, accessori della forza e del valore di esso, le ha trasformate in calamità orrende, capaci di distruggere la terra, ma azionabili da qualsiasi lardoso vigliacco, ha concesso agli stessi controllori del denaro la licenza di consumare i soprusi internazionali più infami e smaccati, ridendosela delle ridicole “regole” da loro stessi fatte approvare per paralizzare i ribelli.
Tali armi – si è osservato – non possono però essere usate all’interno, contro le proprie stesse folle. Macché!
Il “progresso tecnologico” ha provveduto anche a quello, la gente comune non sa neppure a che punto. Le cosiddette “armi non letali”, sviluppate soprattutto dalla ricerca e dall’industria Usa non hanno alcuna finalità umanitaria: la finalità è di servire anche “per uso interno”. Si va dalla pistola elettrica (taser) alle super-colle lanciate ad aria complessa, che solidificano in pochi secondi bloccando ogni movimento della vittima. Esiste un VLAD (Vehicle Lichtweight Arresting Device) capace di bloccare a distanza ogni veicolo e un ADS (Active Denial System) che può bloccare col c.d. Pan Ray ,ogni persona. Con laser portatili si può accecare temporaneamente chiunque, e con ultrasuoni si è in grado di sconvolgere certe funzioni interne degli organismi. Con radiazioni elettromagnetiche si provoca epilessia, e con le basse frequenze si può agire sui cervelli, facendo loro produrre istamina, con immediato effetto letargico. Da tale incompleta enumerazione, si avrà facilmente idea che non vi è azione di folle, per quanto numerose, disperate ed arrabbiate, che non possa essere spenta senza alcuna fatica dalla casta padrona, che comanda a bacchetta legislatori, poliziotti e persino giudici. E gli studi di altre e più efficaci tecniche continuano a fervere, inutile a dire finanziate da chi. E’ davvero difficile (ed esorbita dai fini di questo articolo ), ipotizzare se e come sia possibile salvarci dal mostro impazzito del progresso tecnologico. Ma, certo, il primo passo non può essere che guarire i più consapevoli, e cioè quelli che, come noi, hanno sviluppato una vera allergia verso questo “mondo moderno”, da qualsiasi forma di progressismo.
Alludiamo qui a coloro che sognano i vantaggi che la tecnologia potrebbe apportare, se impiegata rettamente nell’interesse dell’umanità. E’ un indirizzo di pensiero assai pericoloso.
In teoria, sarebbe possibile, ma il mondo non è mai proceduto in teoria. La carenza di tutte le teorie consiste nella tendenza a considerare un fattore, ignorando gli altri, mentre i fattori di un qualsiasi fenomeno sono sempre molteplici. E – considerando, come ci siamo sforzati di fare, i diversi moventi del progresso tecnologico – abbiamo visto come la sua distorsione contro l’Uomo e contro la Terra non sia stato un “inconveniente”, ma il suo inevitabile destino, inseparabile dalla sua natura blasfema. Tecnologia buona e tecnologia cattiva non sono separabili, e quella cattiva neutralizza quella buona, come accade – si dice – per le monete.
La lungimiranza degli antichi incatenò Prometeo alla rupe, con un’aquila a divorargli il fegato. Che non sorga una buona volta un’aquila anche a straziare la Tecnologia?